La Nato e l’Unione Europea, gemelli diversi della comunità transatlantica, sin dai primi exit poll delle presidenziali americane sapevano che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sarebbe stato quantomeno “una sfida”, ovvero il termine diplomatico preferito per indicare una gran rogna. Nessuno però si aspettava il terremoto degli ultimi mesi. Dai dazi alle aperture verso la Russia di Vladimir Putin, passando per i ripetuti insulti all’Ue e in generale agli europei (“sono patetici”), il Trump 2.0 si sta configurando come un elettroshock. Alla Nato il primo scossone lo ha dato il capo del Pentagono Pete Hegseth in occasione della sua prima visita, lo scorso febbraio: in 5 minuti ha smontato le certezze di decenni, dall’impegno degli Usa verso la sicurezza europea alla strategia sull’Ucraina, dove chiaramente l’obiettivo è chiudere il più in fretta possibile senza tanto guardare agli interessi degli alleati. “La sensazione, quel giorno, è stata di trovarsi davanti a una nuova Kabul”, confida una fonte diplomatica riferendosi al caotico ritiro deciso dagli americani nel 2021. “Con la differenza che l’Afghanistan ora siamo noi”.
Dal debutto di Hegseth – che dietro le quinte aveva poi rassicurato i ministri pallidi come cenci: “sappiamo chi sono i buoni e i cattivi, tranquilli” – è passata molta acqua sotto i ponti. Gli europei hanno ben presente che ora dovranno spendere molto di più del 2% del Pil in difesa se vogliono continuare ad avere gli Stati Uniti dalla loro parte. Ma al di là dei quattrini, ciò che rimbalza di bocca in bocca, a Bruxelles, ha un risvolto ben più pesante: gli Usa, per l’Europa, sono ancora un alleato oppure si sono trasformati in qualcos’altro? Ecco, dal vertice della Nato all’Aja potrebbe venire un’indicazione chiara, forse l’ennesima. Comunque sia, per l’Europa è già tardi.
Back to the Future
Trump, non appena è tornato al potere, è entrato a gamba tesa nel dibattito sui nuovi target di spesa della Nato, oggetto principale del vertice di giugno, esigendo il 5% del Pil da ciascun alleato. Si tratta di una cifra esorbitante. Che peraltro obbligherebbe la stessa Washington ad un aumento consistente del bilancio del Pentagono, dato che i dati del 2024 indicano una spesa del 3,38% del Pil, persino in calo rispetto al 2014, quando gli alleati in Galles avevano solennemente promesso di salire al minimo del 2% (entro 10 anni) per reagire alla postura sempre più aggressiva della Russia (fu l’anno dell’annessione della Crimea). Sino al 24 febbraio 2022, quando Mosca ha invaso l’Ucraina, è successo poco o nulla. Dopo, il big bang — specie tra i Paesi del fronte orientale.
La realtà è che Putin ha resuscitato la Nato. Al di là della provocazione di Emmanuel Macron, che l’aveva definita “cerebralmente morta” in una celebre intervista con l’Economist, l’Alleanza Atlantica ha perso parte della sua ‘ragione di vivere’ con il crollo dell’Unione Sovietica e nel corso di almeno due decenni si è trasformata, puntando alle operazioni “fuori area” – come l’Afghanistan, dato che gli Usa dopo l’11 settembre hanno invocato l’articolo 5, prima e unica volta per ora nella storia della Nato – con forze armate più agili e mobili. L’Operazione Militare Speciale russa ha riportato indietro le lancette dell’orologio ai giorni più caldi della Guerra Fredda, tant’è vero che Finlandia e Svezia hanno abbandonato secoli di neutralità – nel caso di Stoccolma – pur di entrare nelle fila della famiglia transatlantica. Per il presidente di allora, Joe Biden, si è trattato di un momento di indubitabile successo. Da allora la Nato ha iniziato un processo di trasformazione gigantesco per tornare al suo core business: la difesa territoriale. Ed è nelle pieghe di quella transizione che gli europei hanno iniziato a sudare freddo. Perché si sono resi conto che, in un mondo improvvisamente instabile e pericoloso, senza gli americani e i loro cosiddetti “strategic enablers” – in pratica satelliti, missili di lungo raggio o aerei di trasporto pesante – erano quasi nudi davanti ai russi. Nonché molto poco sovrani nei confronti di chiunque altro. Il che, visto la piega con Trump, non è un aspetto per nulla secondario.
“Ogni giorno gli F-35 hanno bisogno di un aggiornamento del software: se non arriva l’aereo nemmeno si accende”, spiega una fonte alleata. Sinora nessuno si era posto il problema. Dopo le minacce di Trump alla Danimarca sulla Groenlandia e la giravolta sull’Ucraina l’atmosfera è cambiata e molti Paesi si domandano se sia saggio, per non dire sicuro, essere così dipendenti dagli Stati Uniti. Con delle valutazioni anche profondamente diverse tra i vari schieramenti, segno di quanto il 47esimo presidente americano sia divisivo. “Non sono d’accordo sul fatto che Trump sia un rischio: ogni sua dichiarazione pubblica, o di qualsiasi altro membro del suo gruppo, inizia sempre con un impegno incondizionato nei confronti dell’articolo 5, come Hegseth del resto quando era qui”, dichiara una fonte diplomatica. La valutazione di un politico di primo piano di un altro Paese alleato non potrebbe essere diversa: “Al momento siamo una famiglia disfunzionale, con un marito violento, ma non possiamo fare a meno degli Usa perché loro hanno capacità che noi non abbiamo”.
La soluzione, a questo punto, sarebbe quella di dotarsi, e in fretta, di queste benedette capacità strategiche, in modo da non essere partner di serie B da schifare (alla meglio) o da bullizzare (alla peggio). La Francia, l’unico tra i Paesi europei ad avere una filiera militare realmente sovrana, a partire dallo scudo nucleare ma non solo, lo va dicendo da anni. Largamente inascoltata. “Avere ragione dovrebbe renderci felici ma la situazione è talmente grave che non c’è nessun motivo per rallegrarsi”, racconta un funzionario d’Oltralpe. Parigi, in ambito Ue, sta spingendo come una matta per varare un piano di riarmo davvero europeo, favorendo cioè l’industria della difesa continentale riducendo, al contempo, l’eccessiva dipendenza dagli Usa. Sulla carta pare una buona idea. Peccato però che non sia una posizione condivisa tra i 27. Intanto perché alcuni Stati membri, come l’Italia, hanno grandi aziende della difesa (tipo Leonardo) con importanti filiere in Paesi extra Ue (in primis la Gran Bretagna e gli Stati Uniti). E poi perché le esigenze di riarmo immediate sono tali e tante che le capitali non hanno altra scelta se non rivolgersi alle corporation a stelle e strisce per avere consegne in tempi brevi.
La pianificazione industriale però ricade più nelle competenze dell’Ue che della Nato. La Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, sta dedicando non a caso alla difesa un’attenzione molto particolare e in primavera ha presentato il piano Readiness 2030 per sostenere il riarmo del Vecchio Mondo (non a caso sulle prime è stato chiamato RearmEU, sollevando le critiche di Italia e Spagna, alle prese con opinioni pubbliche poco militariste). Il programma – in grado di mobilitare fino a 650 miliardi di euro, sebbene come vedremo si tratta di un target molto ambizioso – è stato approvato con tempi record dagli Stati membri anche grazie alla clausola d’urgenza scelta dall’esecutivo blustellato, che ha reso possibile aggirare il coinvolgimento del Parlamento Europeo — decisione aspramente criticata dalla presidente Roberta Metsola. Ma alla Commissione non vogliono sentire ragioni: la scadenza per la costruzione del pilastro europeo della Nato era ieri.
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Il Pilastro europeo della Nato
Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina varie personalità europee hanno diagnosticato che il modello economico europeo – la sicurezza pagata dagli americani, l’energia a basso costo fornita dai russi e un ampio mercato di sbocco alle nostre merci garantito dai cinesi – è definitivamente saltato. Il piano Ue Readiness 2030 dovrebbe in teoria mettere una pezza al primo problema. Il programma, in sintesi, si costituisce in due tronconi: l’attivazione coordinata della clausola di salvaguardia a livello nazionale per poter sforare il patto di stabilità e spendere, individualmente, in difesa nonché la creazione di un fondo europeo da 150 miliardi di euro, chiamato SAFE, che favorisca invece gli appalti congiunti tra i vari Paesi Ue, in modo da incoraggiare la costruzione di un’industria della difesa veramente europea e non schiacciata sulle (micro) esigenze nazionali.
La novità, dunque, sta nel SAFE. La licenza a spendere – per i prossimi 4 anni – ha riscosso invece l’approvazione, per ora, di 16 Stati membri ma non di tutti. L’Italia, ad esempio, dopo aver chiesto per anni “lo scomputo delle spese dal patto di stabilità” ha scoperto che il debito resta debito e i mercati, ad un Paese esposto come il nostro, sono inclini a fare pochi sconti. L’attivazione resta quindi sospesa, con la motivazione di voler attendere il vertice dell’Aja e l’individuazione di un nuovo target Nato. Poi si vedrà. Non è quindi un caso se i 27 hanno concentrato tutta la loro attenzione alla negoziazione dei dettagli del SAFE, considerato appunto come il grimaldello per la creazione di una potenziale difesa comune europea.
Il dossier è molto tecnico e si può semplificare sino ad un certo punto, oltre il quale non si capisce più nulla. Però è anche molto coerente. Intanto iniziamo a dire che per accedere ai prestiti si devono mettere insieme almeno due Paesi europei, compresa l’Ucraina. I fondi poi non sono a disposizione per ogni cosa ma per categorie specifiche, divise in due ambiti. Primo: “munizioni e missili; sistemi di artiglieria; capacità di combattimento terrestre e relativi sistemi di supporto, compresi l’equipaggiamento dei soldati e le armi di fanteria; protezione delle infrastrutture critiche; cyber; mobilità militare”. Secondo: “sistemi di difesa aerea e missilistica; capacità marittime di superficie e sottomarine; droni e sistemi anti-drone; facilitatori strategici, quali il trasporto aereo strategico, il rifornimento in volo e i sistemi C4ISTAR, nonché le risorse e i servizi spaziali; la protezione delle risorse spaziali; l’intelligenza artificiale e la guerra elettronica”.
Menzionare questa divisione è importante poiché, stando alle regole, “i prodotti destinati alla difesa appartenenti alla categoria 2 saranno soggetti a condizioni di ammissibilità più rigorose, che richiedono ai contraenti di avere la capacità di decidere in merito alla definizione, all’adattamento e all’evoluzione della progettazione del prodotto destinato alla difesa oggetto dell’appalto”. In pratica si vuole evitare i cosiddetti kill-switch, ovvero la capacità di un fornitore di rendere inutilizzabile l’arma da remoto, come essenzialmente accade agli F-35. Non solo. “Per entrambe le categorie di prodotti, i contratti di appalto dovranno garantire che il costo dei componenti originari di Paesi non appartenenti all’Ue, agli Stati SEE-EFTA (in pratica Svizzera e Norvegia) e all’Ucraina non superi il 35% del costo stimato dei componenti del prodotto finale”. Sono norme volute dalla Francia, determinata a proteggere la filiera blustellata dallo strapotere angloamericano (il razionale è semplice: i finanziamenti europei devono beneficiare le aziende europee). L’interpretazione iniziale, ben più stretta, è stata alla fine allargata grazie ad una serie di compromessi e ora, tra le varie cose, permetterà anche al Regno Unito di parteciparvi, dopo la firma dell’intesa post-Brexit con Bruxelles.
Gli americani, guarda caso, non hanno gradito. “Escludere i membri non Ue da iniziative sulla difesa danneggerà la Nato e l’interoperabilità: le aziende Usa non devono essere trattate in modo ingiusto”, ha tuonato l’Ambasciatore Usa presso l’Alleanza Atlantica Matthew G. Whitaker. Non è un dettaglio da niente. Perché non c’è una visione comune tra gli alleati europei su come costruire questo benedetto pilastro europeo della Nato, su che grado di “autonomia strategica” puntare e come metterla in pratica (ovvero con quali mezzi, di chi e quanto rapidamente). Ciò che invece è chiarissimo sono, da un lato, i costi e le sfide che gli europei dovrebbero affrontare nella ricerca dell’autonomia e, dall’altro, le minacce che si parano loro davanti nei prossimi anni, con una Russia che si sta armando ai ritmi della fu Unione Sovietica e gli Usa che programmano il disimpegno dall’Europa per concentrarsi sull’Asia.
Un recente studio dell’International Institute for Strategic Studies (IISS) ha indicato che, “per sostituire le attuali capacità convenzionali statunitensi assegnate al teatro euro-atlantico”, gli Stati europei dovrebbero investire “risorse significative oltre a quelle già previste nei piani esistenti per potenziare la capacità militare” per una cifra pari a “1.000 miliardi di dollari”, tenendo conto dei “costi di acquisto una tantum e ipotizzando un ciclo di vita di 25 anni”. Ma al di là dei quattrini, che arriveranno, come vedremo più avanti, resta il tema della messa a terra degli acquisti, specie nell’ottica del comprare europeo. L’IISS stima ad esempio che entro il prossimo decennio l’industria della difesa europea “avrà difficoltà a sostituire molte delle capacità statunitensi, in particolare nel settore aereo e marittimo”. “Gli alleati europei – si legge ancora – dovranno quindi affrontare difficili compromessi in alcuni settori delle capacità: più sistemi europei cercheranno di acquistare, più lunghi saranno i tempi di consegna e, data la minaccia russa, più a lungo rimarrà aperta la finestra di vulnerabilità”.
E siamo al paradosso. Se, infatti, l’Europa vuole essere sovrana, dunque indipendente dagli umori dell’alleato americano ma al tempo stesso in grado di difendersi o difendere i propri interessi, deve investire di più in mezzi ‘made in Europe’ ad alta tecnologia, prodotti con economia di scala a prezzi competitivi rispetto agli omologhi americani ma, dato il ritardo accumulato, se lo fa potrebbe non avere i magazzini sufficientemente pieni in caso di attacco da parte di Mosca. FantaRisiko? Forse. Diverse agenzie d’intelligence europee, però, stimano che la Russia, sulla base della ricostituzione delle sue forze, sarebbe in grado di sferrare il colpo “tra il 2027 e il 2030”, a seconda delle variabili prese in esame. Che poi voglia, è altro paio di maniche. Lo scenario è ad ogni modo molto fosco. Perché Mosca, in questi tre anni di conflitto attivo in Ucraina, ha imparato molte lezioni sulla guerra del XXI secolo (così come la Cina, che ha fornito tecnologia chiave a entrambi i duellanti) ed ha ormai una economia bellica pienamente mobilitata. Come va ripetendo da settimane il commissario alla Difesa Andrius Kubilius gli europei dovrebbero invertire l’ordine degli addendi quando pensano all’Ucraina, perché ormai è Kiev, con la sua esperienza acquisita nel settore dei droni, a poter aiutare l’Ue dovesse accadere il peggio.
“Dobbiamo capire che nel continente europeo ci sono due eserciti collaudati in battaglia, con la capacità di utilizzare milioni di droni: la Russia e l’Ucraina. Kiev per la propria difesa e quella dell’Europa, Mosca in preparazione della sua prossima aggressione”, ha messo in guardia Kubilius intervenendo al premio Carlo Magno. Diverse lezioni sono già state metabolizzate. “Oggi – ha proseguito – l’80% degli obiettivi in Ucraina sono distrutti dai droni, c’è una ‘valle della morte’ di 15 chilometri su entrambi i lati della linea del fronte dove nulla può muoversi. La ‘valle’ è creata dai droni, ucraini e russi. Un carro armato tradizionale sopravvive in media 6 minuti in questa ‘valle della morte’. E ogni 2 mesi è necessaria un’innovazione radicale dei droni in funzione, poiché i russi imparano a disturbare o intercettare i modelli precedenti”.
Il rischio, insomma, è che gli europei non sappiano a cosa stanno andando in contro. “Nel caso di un’aggressione russa contro uno Stato membro della Nato o dell’Ue dovremo affrontare un esercito russo collaudato in battaglia, con milioni di droni a disposizione. Siamo pronti per questo? Ne dubito”, avverte Kubilius rivelando che, secondo il celebre generale ucraino Valeri Zaluzhnyi, l’Occidente (compresa l’Ue) si sta ancora preparando “a combattere le guerre di ieri”. La soluzione? “Una nuova architettura di sicurezza europea, una vera Unione europea della difesa, non può essere creata senza che l’Ucraina ne faccia parte integrante sin dall’inizio”, argomenta Kubilius. “Mentre gli americani stanno iniziando a ritirarsi dall’Europa e i russi stanno diventando più forti, la nostra sicurezza in Europa dipende dalla rapidità con cui costruiremo una nuova architettura di sicurezza. E l’Ucraina, con il suo esercito collaudato in battaglia e la sua industria della difesa estremamente innovativa, sarà la parte più importante di tale architettura di sicurezza”.
Ottimo. Peccato che tra Usa e Ue, nonché all’interno dell’Ue stessa, vi siano posizioni discordanti su che relazioni avere con l’Ucraina in futuro – deve far parte della Nato? Dell’Ue? Entrambe le cose o nessuna delle due? – o persino su come arrivare alla pace con Mosca, se ‘in pressing’ oppure cercando il benestare del Cremlino. Le differenze viaggiano sia sulle direttrici geografiche (la percezione del rischio è diversa a Vilnius o Varsavia rispetto a Roma o Madrid) sia su quelle politiche, con le sigle europee allineate alle posizioni MAGA di Donald Trump indisponibili, da un lato, allo mano ferma con Vladimir Putin – dall’alto di uno strumentale pacifismo – e, dall’altro, all’impegno verso la costruzione di una vera autonomia strategica dell’Europa, che pure sarà costretta a mettere mano al portafoglio per aumentare le spese militari così come le impone proprio Trump. E siamo al secondo paradosso.
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L’Aja — summit ad alta tensione
“Quando gli Usa per la prima volta hanno ventilato l’ipotesi del 5% del Pil qui la risposta è stata unanime: oh Cristo santo”, confida un diplomatico della Nato. Col passare del tempo la speranza che l’incubo potesse svanire è tramontata. Alla fine ci ha pensato il segretario generale Mark Rutte a cavare il coniglio dal cilindro: un piano su due livelli, che prevede il 3,5% in spese militari tradizionali, definite secondo gli standard Nato da sempre validi, a cui aggiungere un altro 1,5% dedicato alla sicurezza in modo più ampio (ad esempio cyber, infrastrutture per la mobilità militare o la protezione di asset critici, come i gasdotti sottomarini).
La somma produce il 5% chiesto da Donald Trump come scalpo per punire gli europei scrocconi ma consente a tutti gli altri di salvare i bilanci, poiché nell’1,5% aggiuntivo può entrare un po’ la qualunque – per l’Italia già si parla di vigili del fuoco, protezione civile, persino il ponte sullo Stretto di Messina – e infatti la definizione precisa è stata tra i capitoli negoziali più delicati del vertice. C’è chi lo vede come un trucco, ad esempio i Paesi del fianco orientale, già orientati a spendere il 5% in difesa dura e pura, e chi come un riconoscimento che il concetto di sicurezza al giorno d’oggi è più ampio e sfaccettato e va considerato in quanto tale dalla Nato. Ma alla fine l’impostazione ‘lasca’ ha prevalso. Il 3,5% in spese militari classiche, infatti, è già di per sé un aumento poderoso. E tutt’altro che una cifra campata per aria. Alla ministeriale difesa di giugno i 32 alleati hanno dato il via libera agli obiettivi di capacità, in pratica la lista della spesa assegnata ad ogni capitale per poter attuare i piani di difesa regionali concordati al vertice di Vilnius (con il benestare, dunque, di ogni leader). Ebbene, la somma calcolata dai vertici militari è proprio quella del 3,5% (anzi, c’è chi dice che sarebbe un pelo più alta ma va bene pure così). Insomma, è il culmine di anni di studi e pianificazione militare, non certo un colpo di testa. Ma costerà e i cittadini devono saperlo. E sul punto non mancano le tensioni.
Alla vigilia del vertice, quando ormai i diplomatici stavano praticamente limando i dettagli, il premier spagnolo Pedro Sanchez ha sganciato una vera e propria bomba. In una lettera a Rutte ha definito il target del 5% come “non solo irragionevole ma anche controproducente”, certificando l’indisponibilità di Madrid a certificare l’impegno. Tra le motivazioni, tante cose di sinistra. L’obiettivo “metterebbe a rischio” il sistema di welfare del Paese, costringerebbe il governo “ad aumentare le tasse sulla classe media”, ridimensionare gli impegni “per la transizione verde” e limitare la cooperazione internazionale “allo sviluppo”. Sanchez ha chiesto essenzialmente di rendere volontario l’accordo sul 5% in difesa oppure di avere una deroga ad hoc. “Sono proposte irricevibili”, ha sintetizzato a caldo un’alta fonte diplomatica. Così, in zona Cesarini, la Nato è entrata in modalità negoziati a oltranza per trovare una soluzione. La frustrazione, tra gli alleati, è dovuta anche al fatto che erano stati trovati già molti compromessi per attutire il colpo. L’alleanza tra Italia e Regno Unito ha portato i suoi frutti e l’orizzonte per arrivare al fatidico 5% sarà con tutta probabilità il 2035, dunque 10 anni pieni. E senza obblighi intermedi, con piena flessibilità. Non solo. Si va pure verso una clausola di revisione al 2029, legata al raggiungimento degli obiettivi di capacità, che potenzialmente aprirebbe la strada a una riduzione di quel doloroso 3,5% se gli scenari internazionali lo permetteranno. Ma, appunto, la politica è politica e gli equilibri della coalizione di Sanchez sono tali che il governo rischia di cadere se dovesse approvare i desiderata della Nato. La soluzione? Un arabesco diplomatico: il 3,5% e il raggiungimento degli obiettivi di capacità vengono messi sullo stesso piano, permettendo a Sanchez di cantare vittoria ed evitare l’harakiri. Con buona pace per gli altri.
Così torniamo alla madre delle questioni. Tutta questa fatica per cosa, esattamente? Gli Usa hanno messo nel congelatore il dibattito sulla strategia da tenere con la Russia che, nel comunicato finale dell’Aja (5 o 6 paragrafi striminziti) verrà sì definita nuovamente come una minaccia per l’Alleanza ma nulla di più e solo grazie alla pressione compatta degli altri 31 alleati. Si ribadirà il sostegno all’Ucraina ma Washington ha posto il veto ad ogni riferimento al futuro ingresso di Kiev nella Nato, proprio per non turbare i colloqui di pace. Un atteggiamento comprensibile sino ad un certo punto. “Delle due l’una: o ci dobbiamo armare perché Mosca ci insidia oppure questo aumento ciclopico della spesa militare non è giustificato”, sussurrano varie fonti alleate. Peraltro c’è grande scetticismo che il piano europeo sulla difesa possa davvero rafforzare l’autonomia del Vecchio Mondo. “Stiamo facendo lo 0,1% per essere sovrani rispetto agli Usa e se le cose continuano nella stessa direzione fra 5 anni saremo allo 0,2%”, nota un funzionario Nato.
Un esempio? Il progetto più avanzato per dotare l’Europa di uno scudo missilistico è lo European Sky Shield Initiative (o E.S.S.I) a trazione tedesca, che già coinvolge 21 Paesi europei, sia membri dell’Ue che esterni (come Regno Unito o Turchia). Però due pesi massimi – Francia e Italia – sinora se ne sono tenuti fuori, poiché il sistema Samp-T non ha trovato spazio nel mix. Che prevede il primo livello di protezione affidato agli Iris-T di Berlino, il secondo ai Patriot Usa e il terzo agli Arrow 3 israeliani. Con buona pace del buy European. Insomma, sintetizzando, Washington vuole che l’Europa spenda di più (comprando però tecnologia made in Usa senza trasferimento di sovranità, con il beneplacito della maggior parte degli alleati), in modo da occuparsi della sua difesa territoriale convenzionale con maggiore autonomia, nel quadro però di una gestione del quadrante transatlantico sempre dettata dagli Stati Uniti. In pratica: sii sovrano a modo mio. Nessuno alla fine avrebbe nulla da ridire – è così dalla fine della Seconda Guerra mondiale, con qualche sussulto qua e là dei francesi – sennonché il terremoto Trump inizia a generare qualche crepa nelle fondamenta della casa comune. “Il danno reputazionale degli Usa ormai è indelebile”, decreta una fonte diplomatica Nato. “The Donald ha accusato gli alleati di aver eseguito gli ordini di Joe Biden, come se questa fosse una colpa. Come fai adesso a fidarti?”.
D’altra parte, come ha dimostrato l’operazione in Iran con i B-2, solo l’America è in grado di proiettare potenza su quella scala. “Finché gli Stati Uniti restano in Europa ridurranno la nostra probabilità di dover combattere”, nota un diplomatico di un Paese dell’est. “È anche una questione simbolica, al di là delle truppe e dei mezzi. Che ad ogni modo a noi mancano”. Non è dunque una sorpresa se il programma del vertice dell’Aja sia stato asciugato sino a comprendere solo una cena di lavoro tra i leader offerta dai reali d’Olanda e due ore e mezza di sessione comune l’indomani. La missione è una sola: evitare danni, evitare strappi. Dentro e fuori l’Alleanza.
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