La Slovenia ha annunciato che vieterà il commercio di armi con Israele a causa della guerra a Gaza. “La Slovenia è il primo paese europeo a vietare l’importazione, l’esportazione e il transito di armi da e verso Israele”, ha dichiarato il governo in una nota, aggiungendo di agire in modo indipendente perché l’Unione “non era in grado di adottare misure concrete” come richiesto.
Se le parole hanno un peso, quelle pronunciate dal ministro degli Esteri tedesco, Johann Wadephul, potrebbero preludere ad uno svolta epocale nella politica della Germania in Medio Oriente. “Israele si trova sempre più in una posizione di minoranza”, ha affermato, sottolineando come per la Germania il riconoscimento della Palestina “deve avvenire alla fine di un processo negoziale che – ha incalzato il ministro – deve iniziare ora”.
Berlino, quindi, non seguirà la Francia nel riconoscimento tout court dello Stato della Palestina ma, di fatto, sembra aver perso la pazienza nei confronti del governo di Benjamin Netanyahu. Un esecutivo che, in Europa, senza una vera svolta umanitaria a Gaza, rischia di perdere quasi tutti i suoi alleati. “La Germania sarà costretta a reagire a passi unilaterali”, ha avvertito il titolare della diplomazia teutonica prima di partire per il Medio Oriente, riferendosi alla soluzione dei due Stati.
L’appuntamento da segnare con il cerchio rosso resta quello dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di fine settembre.
Il punto è che, guardando alla situazione della Striscia, allo stato dell’arte dei negoziati con Hamas per il rilascio degli ostaggi e alle continue dichiarazioni incendiarie di una parte del governo Netanyahu, quell’appuntamento appare lontanissimo.
L’annuncio di Emmanuel Macron dello scorso 24 luglio in pochi giorni ha fatto proseliti. L’ultimo ad unirsi al gruppo di Paesi che a fine settembre riconoscerà lo Stato palestinese è stato il Portogallo, decisione che il premier di Malta, Robert Abela, ha certificato nelle stesse ore confermando quanto già anticipato nei giorni scorsi. Il gruppo, in Europa, potrebbe allargarsi. In Belgio – sin dal principio molto severo nei confronti della strategia israeliana a Gaza – è forte la pressione sul primo ministro Bart De Wever. Mentre il presidente della repubblica finlandese Alexander Stubb ha affermato che, se il governo di Helsinki lo proporrà, è pronto ad approvare il riconoscimento della Palestina, visto che è a lui che spetta l’ultima parola.
La Svezia, dal canto suo, ha chiesto all’Ue di congelare la parte commerciale dell’accordo di associazione con Israele. Tra i grandi, in Ue, a resistere resta l’Italia di Giorgia Meloni, che nelle prossime ore, tra l’altro, sarà a Istanbul per un faccia a faccia con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
Ma non c’è solo l’Europa a muoversi verso il riconoscimento dello Stato di Palestina. Il Canada, dopo il sì della Gran Bretagna, è diventato il terzo Paese del G7 a passare dalle parole ai fatti. L’Australia ha spiegato che il passo diplomatico è in via di valutazione. Con le ultime adesioni i Paesi che riconoscono lo Stato di Palestina, dopo l’Assemblea al Palazzo di Vetro, potrebbero superare i 150 sui 193 membri dell’Onu. L’esistenza di uno Stato palestinese è stato uno dei pilastri della dichiarazione che martedì ha unito rappresentanti europei e arabi e che ha concluso la conferenza organizzata da Francia e Arabia Saudita. Ed è a quell’appuntamento che Wadephul ha fatto riferimento parlando del crescente isolamento di Israele.
Al tempo stesso Netanyahu può continuare a contare sul suo principale alleato. Donald Trump, dopo aver snobbato la decisione di Macron (“le sue parole non contano”) ha definito la scelta di Keir Starmer “una ricompensa per Hamas”. Con il Canada è stato ancora più duro, legando il riconoscimento della Palestina con il dossier dazi. “Ora sarà molto più difficile un accordo commerciale”, ha minacciato il tycoon. Dello stesso tenore, chiaramente, sono state le reazioni israeliane. Anche perché il pressing diplomatico dell’Occidente va a contrastare il fine ultimo dei partiti della destra israeliana: rendere impossibile i due Stati. “I ministri della Difesa Israel Katz e della Giustizia Yariv Levin lavorano da molti anni per attuare la sovranità israeliana in Giudea e Samaria (Cisgiordania). In questo momento, c’è un’opportunità che non dobbiamo perdere”, ha recitato una nota diffusa dai due ministri. Una dichiarazione che va a sovrapporsi a quanto affermato nei giorni scorsi da Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, i due ministri dell’ultradestra israeliana.
Witkoff e Netanyahu: ‘Basta intese parziali con Hamas. Da ostaggi a smilitarizzazione, si punta a un accordo globale’
Mentre a Gerusalemme stava iniziando nel primo pomeriggio di giovedì l’incontro tra l’inviato della Casa Bianca Steve Witkoff (che nelle prossime ore sarà a Gaza) e il primo ministro Benjamin Netanyahu, le parole del presidente Usa hanno fatto irruzione nella cronaca con un post su Truth. “Il modo più rapido per porre fine alla crisi umanitaria a Gaza è che Hamas si arrenda e liberi gli ostaggi”, ha scritto Donald Trump. Un cambiamento di tono – non inusuale – rispetto alla scorsa settimana, quando aveva dichiarato che “Israele dovrebbe fare di più per portare cibo a Gaza”. I commentatori l’hanno presa come una minaccia ad Hamas.
L’ultima ingiunzione perentoria al gruppo terroristico che da 664 giorni tiene prigionieri 50 rapiti, di cui una ventina ancora vivi. E da altrettanti giorni, pur avendo perso l’intera leadership per mano dell’Idf, continua contro le truppe israeliane micidiali operazioni di guerriglia. Che potrebbero andare avanti chissà per quanto tempo. Come pure la guerra di Israele, nonostante l’inquilino dello Studio Ovale non veda l’ora che finisca.
Intanto, dalle prime indiscrezioni fatte trapelare sull’incontro tra Witkoff e Netanyahu, svelate ‘da un alto funzionario politico’, “si starebbe consolidando un’intesa tra Israele e Usa secondo cui, di fronte all’intransigenza di Hamas, bisogna passare da un piano per il rilascio parziale degli ostaggi a un altro per la liberazione di tutti i rapiti, il disarmo di Hamas e la smilitarizzazione della Striscia. Non ci saranno più accordi parziali”, ha riferito a Ynet. Aggiungendo che “al momento i contatti sono interrotti. Hamas ha tagliato i rapporti. Non c’è nessuno con cui parlare dall’altra parte. E anche Witkoff ha compreso questa realtà”, ha affermato.
Washington e Gerusalemme, ha spiegato, opereranno per aumentare l’assistenza umanitaria, anche durante la prosecuzione delle operazioni militari a Gaza. Da parte sua Hamas ha rilasciato una dichiarazione a Reuters annunciando di essere “pronta a risolvere la questione degli ostaggi prigionieri a Gaza nel quadro di un accordo di cessate il fuoco”. Ma ha ribadito: “La resistenza palestinese non si fermerà finché non finirà l’occupazione”.
Secondo fonti della Casa Bianca, negli ultimi giorni Trump ha iniziato a pensare che Bibi stia cercando di prolungare la guerra a Gaza, come afferma un reportage di The Atlantic citato dai media israeliani. In cui viene chiarito che l’amministrazione Usa ritiene che gli obiettivi militari nella Striscia siano già stati raggiunti e che il primo ministro stia continuando il conflitto per conservare il proprio potere politico. E adottando decisioni che frenano l’accordo di tregua.
Tuttavia il presidente, che nel frattempo ha attribuito il fallimento dei colloqui all’organizzazione fondamentalista e bollato come un ‘premio a Hamas’ la decisione di Francia e Regno Unito di riconoscere uno Stato palestinese (oltre che a minacciare il Canada) se non ci sarà un cambiamento concreto sul terreno, sembrerebbe non avere intenzione di cambiare la sua politica nei confronti di Israele.
Dalla Casa Bianca del resto dicono che “non c’è una rottura significativa” tra Trump e Netanyahu: “Anche gli alleati a volte possono non essere d’accordo”. Nel frattempo, i ministri di Difesa e Giustiza, Israel Katz e Yariv Levin, hanno detto in una dichiarazione congiunta che “è il momento per attuare la sovranità israeliana in Giudea e Samaria (Cisgiordania)”. Cioè, annetterla. Come vorrebbero ardentemente anche i due ministri-coloni Bezalel Smotriche e Itamar Ben Gvir.
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